La strada della pace, per i Patrioti, è quella indicata dal Papa. Matteo Salvini e Viktor Orban, nel loro faccia a faccia di oltre un’ora a Budapest, condividono “l’urgenza di fermare il conflitto in Ucraina, così come auspicato autorevolmente anche dal Santo Padre”, secondo la sintesi ufficiale di un incontro andato in scena all’indomani della risoluzione del Parlamento europeo sull’uso in territorio russo delle armi inviate a Kiev, che ha messo nuovamente la maggioranza di fronte ai distinguo al proprio interno. Distanze rimarcate anche dal gelo di Antonio Tajani davanti all’appello del leader della Lega e del primo ministro ungherese: “Fanno parte della stessa famiglia politica. È normale, non è la nostra. Noi siamo il Partito popolare europeo, abbiamo la nostra posizione che è diversa”. E la stessa Giorgia Meloni da sempre usa toni più netti per ribadire che l’Italia sta “dalla parte dell’aggredito”, come farà anche a New York nei prossimi giorni all’Assemblea generale dell’Onu, quando la crisi ucraina sarà uno dei focus per i capi di stato e governo.
Le strade di pace, ha detto più volte Francesco, si possono aprire “con l’impegno del dialogo e del negoziato, e astenendosi da azioni e reazioni violente”. E tanto il leader della Lega quanto il primo ministro ungherese in questi mesi hanno cercato di distanziarsi dalle strategie del continuo sostegno militare a Kiev, seppur la Lega in Parlamento non abbia mai fatto mancare il voto sui provvedimenti per metterlo in atto. I due, soprattutto, condividono l’idea che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca accelererebbe una svolta nel conflitto. Tanto che Orban ha concluso la sua controversa “missione di pace” che lo ha portato a Kiev, Pechino e Mosca, proprio incontrando il tycoon e attirandosi l’ira dei partner europei all’inizio della presidenza di turno ungherese.
Salvini e Orban sono anche due leader che si sentono nel mirino. “Non mollo”, è diventato il motto del segretario della Lega dopo la richiesta di condanna a 6 anni nel processo Open Arms. Una vicenda da cui conta “di essere assolto” perché ha fatto il suo “dovere”. L’ungherese gli ha garantito che una delegazione del suo partito sarà a Pontida e poi a Palermo per l’arringa finale, e lo ha definito “il patriota più ricercato d’Europa, un eroe”. Rientrato in Italia, a Bruno Vespa che gli domandava però se le posizioni di Orban siano sempre più lontane da quelle del governo italiano, il vicepremier ha risposto secco: “Siamo in assoluta sintonia sui temi del lavoro, della sicurezza, del contrasto al traffico di esseri umani e della richiesta della pace”.
Nella maggioranza, tuttavia, non la pensano tutti così. E i suoi alleati non fanno mistero di temere “la Lega a trazione Vannacci” se si dovessero un giorno affrontare scelte cruciali sul dossier Ucraina. Ad esempio quando in manovra andrà discusso l’aumento delle spese per la Difesa, che probabilmente passerà dall’1,46% del Pil al 1,6%. O se si dovesse varare un nuovo pacchetto di forniture militari. “Al momento non è allo studio – spiegano fonti di governo – ma se Zelensky dovesse chiedere nuovo supporto a Meloni non lo si negherà”. Intanto, con qualche ritardo, entro fine mese sarà consegnato a Kiev il sistema di difesa aerea Samp-T. Ma non sono in discussione, viene sottolineato, i limiti all’uso delle armi italiane.
Al di là dell’artiglieria, che si dà per scontato possa aver colpito porzioni di territorio al di là del confine, per il governo resta immutato il divieto di usare i missili a lunga gittata verso la Russia. Alcune fonti parlamentari ben informate sostengono che il divieto non sia esplicito, altre assicurano che le regole di ingaggio siano chiare e siano state visionate dal Copasir. “La nostra posizione è cristallina – il ragionamento che si fa in ambienti dell’esecutivo -, al di là del concetto di attacco o difesa, usare missili a lunga gittata oltre il confine ucraino può provocare il rischio di una escalation”.
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