“Mi siedo accanto a loro e senza pensarci su spengo la televisione e il router. Voglio spiegarvi chi siete, da dove venite e, in parte, perché siete come siete” dice il cagliaritano Andrea Polo, classe 1975, Chief Communication Officier di Facile.it, ai suoi figli Marco e Giovanni. E’ nato, così, con un atto a oggi quasi rivoluzionario, quello di spegnere tutto e fermarsi a parlare, il libro ‘Storie di padri. Storie di figli‘, edito da Paesi Edizioni. “Sapete chi era Cosimo?”. Comincia così la storia di quattro generazioni, di padre in figlio, tra le proteste dei figli che avrebbero voluto seguire la finale di Masterchef.
Il viaggio
Si tratta di un cammino ricco di emozioni attraverso un secolo di paternità. Cosimo è diventato padre nel 1910, ma non prese mai in braccio nessuno dei suoi figli o nipoti perché diceva, “è una cosa da donne”. Andrea, suo nipote, ha avuto il suo primo figlio nel 2010, esattamente cent’anni dopo. Cresciuto tra i pascoli, Cosimo ha imparato a leggere e scrivere in prigione, durante la guerra. Tornato in libertà, ha fatto studiare tutti i suoi undici figli perché diventassero ‘migliori di lui’. Andrea è nato quasi a sorpresa, otto anni dopo i suoi fratelli. Ha girato il mondo e fatto della scrittura e delle parole il proprio mestiere. Anche se i suoi genitori, e i suoi figli, non hanno mai ben capito quale fosse quel mestiere.
Il lavoro di oggi e di ieri
La storia del loro bisnonno li ha lasciati ammutoliti. “Papà, ma come è possibile che un bambino così piccolo sia stato mandato a lavorare? E da solo, poi!” chiedono Giovanni e Marco. “In effetti, la storia di mio nonno è molto particolare; nacque alla fine dell’Ottocento in un paesino dell’interno della Sardegna e a soli cinque anni venne mandato a fare il servo pastore” racconta all’Adnkronos Andrea Polo. “In sintesi, pascolava le pecore di altri e crebbe totalmente analfabeta fino a che, durante la Prima Guerra mondiale, fu fatto prigioniero e il suo compagno di cella gli insegnò a leggere e scrivere. Quel fatto cambiò la sua vita, e quella di tutti noi che da lui nascemmo: figli, nipoti o bisnipoti”. “Fece il concorso alle Ferrovie dello Stato e iniziò la sua carriera, prima come macchinista, poi come capotreno e, in ultimo, come capostazione. Ma soprattutto maturò la convinzione che solo tramite la cultura si potesse veramente migliorare e, scelta non scontata nella Sardegna dei primi anni del Novecento, fece studiare tutti i suoi figli, maschi e femmine, portandoli tutti al diploma superiore e quasi tutti alla laurea. Era un uomo tenace, ma in fondo anche molto tenero, sebbene la società di allora non gli consentisse di mostrarlo”.
Marco, poi, si legge nel libro, “qualche mese fa ha dovuto fare i conti con l’alternanza scuola-lavoro, scoprendo quanto sia faticoso cominciare a lavorare come i grandi”. “È stato un momento molto divertente, lo ammetto” sorride il papà. “Lui fa il liceo scientifico, ma assieme ad altri compagni di classe è stato mandato a fare il cicerone in una villa storica di Milano. All’inizio era molto contrariato, ma alla fine ha trovato un modo tutto suo di raccontare quelle stanze in maniera diversa e, per sua stessa ammissione, si è trattato di un momento molto bello. Il primo, forse, in cui si è sentito davvero grande. Anche se il fatto che il lavoro non fosse pagato non l’ha mandato tanto giù“.
Zia Natalina e la laurea in Matematica
In famiglia, zia Natalina era una delle più piccole. Faceva tutto quello che diceva nonno Cosimo e lui aveva un debole per lei. Anche lei come gli altri figli, “si iscrisse all’Università e scelse Matematica, una facoltà tutt’altro che semplice”. “I primi anni dei suoi studi scorsero serenamente con tanti esami superati e sempre con buoni voti. Poi arrivo il momento in cui i pensieri di zia Natalina si iniziarono ad allontanare dai libri. Andò a parlarne con nonno Cosimo”. Di fronte al suo diniego non si perse d’animo e una mattina tutto cambiò. “Andò a bussare alla porta del convento delle Clarisse Cappuccine, l’ordine di monache di clausura che l’accolse e che sarebbe diventata la sua nuova casa”. “Accipicchia! Ganza la zia Nat!” commentarono divertiti Marco e Giovanni, scoprendo che la vecchietta in abiti talari, che avevano conosciuto solo attraverso racconti e fotografie, in realtà era la protagonista del romanzo della sua vita.
“Non è riduttivo dire che io adorassi mia zia Natalina” mette in chiaro Andrea Polo. “Era di una simpatia travolgente, e non pensiate che il suo aver scelto la vita di clausura l’abbia tagliata fuori dal mondo e dalla sua famiglia. Era presentissima, scriveva tantissime lettere e questo portava tutti noi a risponderle con lunghe pagine di racconti della nostra quotidianità. Ricordo benissimo quando mi raccontò delle sue piccole rivoluzioni dentro al convento e di come si fosse ritagliata uno spazio nel cuore dei suoi concittadini di Osimo, il paese delle Marche, dove visse quasi la totalità della sua vita da monaca. Uno dei ricordi più belli che ho di lei risale a un Natale della fine anni ’80. Ci trovavamo ad Osimo proprio quando le persone della Pro loco vennero a ritirare le grandi statue del presepe che ogni anni le monache prestavano alla comunità per abbellire la piazza del paese. Io, bambino, sbirciavo la porta del convento finalmente socchiusa, incrociai lo sguardo della madre badessa che con un grande sorriso mi fece cenno di sgattaiolare dentro per fare una sorpresa alla zia e abbracciarla davvero. Furono pochi minuti, bellissimi, in cui ci stringemmo forte”.
Lo chiameremo Dumbo
“Quando io e mia moglie scoprimmo di essere in attesa del secondo bimbo, dopo la gioia immediata subentrò la preoccupazione per come Marco (il primogenito, ndr.) avrebbe accolto la notizia. Cercammo allora di coinvolgerlo, dandogli un ruolo importante: scegliere il nome per il suo fratellino“. “Marco sulle prime non ebbe alcun dubbio, e dopo aver pensato con faccia seria per circa due minuti proferì solenne: ‘Ho deciso, lo chiameremo Dumbo!'”.
“Quando scoprimmo che stava per arrivare il nostro secondo bimbo, fu un’altalena di emozioni” racconta Andrea. “Da un lato ero entusiasta di ricominciare dall’inizio il percorso meraviglioso che avevo intrapreso fino ad allora con Marcello (in realtà è questo il suo vero nome, nel libro si chiama Marco in ‘onore’ del nonno, mio padre. Mentre Corrado, il mio secondogenito, nel libro ha il nome di mio suocero, Giovanni), dall’altro mi sentivo in colpa nei suoi confronti, come se il fargli entrare in casa un fratellino volesse dire togliere qualcosa a lui. Quanto mi sbagliavo: essere in quattro fu da subito bellissimo e, come le cose belle della vita, di certo pieno di alti, bassi e imprevisti, ma tornando indietro rifarei tutto, senza dubbio. Fare il papà è un lavoro difficile, ma bellissimo. E una cosa tengo a dire, essere padri non vuol dire mettere al mondo dei figli, ma crescerli, amarli e, soprattutto, imparare a rispettare loro, i loro caratteri e le loro inclinazioni individuali”.
Le radici
“Ormai sono più di tre ore da quando ho sequestrato il telecomando ai miei figli e spento il router di casa” scrive. “Nessuno pensa più a chi è stato eliminato nella puntata di Masterchef o ai messaggi non letti persi nella chat con gli amici. In queste ore io ho concimato, loro hanno raccolto. Tutti insieme abbiamo seminato, innaffiato e concimato. In questo pomeriggio assieme, io, Marco e Giovanni abbiamo cercato di fermare il tempo. Di rivivere pezzi della mia e della loro storia”. “Il libro è scritto per loro, per i miei figli, perché abbiano un punto fermo della loro storia. Non penso lo abbiano ancora letto dall’inizio alla fine, forse solo alcuni pezzi – rivela -. Ogni tanto fanno domande dirette, hanno delle curiosità e allora gli leggo degli stralci di cui sono anche loro in qualche modo protagonisti. Lo leggeranno quando riterranno sarà il momento giusto per loro. D’altronde, come ho detto prima, fare il papà vuol dire anche rispettare i tempi dei tuoi figli”.