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Fondi utilizzati in maniera dispersiva, progetti «sopravvalutati» nella loro efficacia e un terzo motivo di critica, il più delicato: un’attenzione «inadeguata» ai diritti umani dei migranti e agli abusi a loro danno. È il bilancio vergato a fine settembre dalla Corte dei conti Ue, un’istituzione di controllo sui fondi Ue, sui risultati e le – diverse – problematiche del cosiddetto Eu Trust Fund, o EUTF: un fondo fiduciario da 5 miliardi di euro costituito dalla Ue nel 2015 per intervenire sulle tre regioni di Sahel e lago Ciad, il Corno d’Africa e l’Africa settentrionale, alcune delle zone più sensibili per i flussi migratori nel Continente. Bettina Jakobsen, il membro della Corte dei conti europea responsabile del rapporto, ha già parlato pubblicamente di un modello incardinato su un «sostegno frammentato» e «poco attento alle priorità strategiche», ribadendo poi a Sole 24 Ore e Der Standard le incongruenze emerse nel rapporto. Un affondo che chiama in causa l’intera impalcatura delle politiche Ue sulla gestione dei movimenti, a cominciare dal pilastro consacrato da accordi come quelli con Libia, Tunisia o Egitto: l’esternalizzazione del controllo delle partenze, la ratio dei finanziamenti miliardari accordati negli ultimi scampoli di legislatura a Tunisi e Cairo.
Il (mal)funzionamento del fondo fiduciario
La stroncatura della Corte dei conti ha riacceso i fari, almeno in sede comunitaria, su uno strumento emerso ai picchi della cosiddetta crisi migratoria del 2015 e già criticato dall’organismo di controllo nel 2018. Il fondo è nato con gli obiettivi dichiarati di sostenere la «stabilità» della regione a contribuire a una «migliore gestione dei flussi», fissandosi priorità che includono misure contro la tratta di esseri umani, gli sforzi per la stabilizzazione delle regioni e la protezione dei migranti vulnerabili. Il fondo, sottolinea la Corte, ha ricevuto oltre 5 miliardi di euro di contributi e fornito sostegno a 27 paesi africani. La quota maggiore della sua dotazione, pari a 4,4 miliardi di euro (88%), è attinta da Fondo europeo di sviluppo e dal bilancio dell’Ue con due contributi pari rispettivamente al 66,9% e al 20,8%. Il restante 12% arriva per il 37% della Germania, il 20% dall’Italia e per il 43% da «altri Paesi donatori». A dicembre 2023 i pagamento erogati si aggiravano poco sopra i 4,5 miliardi di euro, distribuiti con una quota del 42% a favore di Sahel, il 36% al Corno d’Africa e il 20% sull’Africa settentrionale. Gli esiti sono quelli contestati dal rapporto, dopo un’analisi applicata soprattutto su cinque Paesi: Etiopia, Gambia, Mauritania, Libia e Tunisia.
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Il rapporto della Corte scende nel dettaglio di varie storture nel funzionamento del fondo. Ci sono casi di «rendicontazioni gonfiate» e «dichiarazioni inesatte», o ancora denunce di «attività non più sostenibili, difficili da attuare o non direttamente collegate agli aspetti più urgenti della crisi migratoria», come la «ristrutturazione del lungomare di Al Shabbi a Bengasi», il restauro del teatro romano di Sabratha, in Libia o la fornitura di attrezzature sportive e da cucina per le scuole con «urgenti necessità di infrastrutture di base». Uno dei capitoli più critici resta quello sulle violazioni dei diritti umani, espresso nel divario fra «le intenzioni della Ue» e i risultati di progetti che godono di finanziamenti comunitari. Fra gli esempi più indicativi ci sono i «potenziali rischi per i diritti umani associati a più attività dell’EUTF in Libia», uno dei Paesi al cuore della strategia di esternalizzazione del controllo della frontiera sposata da Bruxelles e singoli governi, in testa quello italiano. La fornitura di imbarcazioni, attrezzatura e formazione alla Guardia costiera libica, evidenzia il report, nasce con l’intenzione di «aumentare la sorveglianza» e «ridurre le morti in mare», salvo sfociare nelle casistiche contestate dalla Corte e denunciate da varie organizzazioni non governative: le attrezzature «potrebbero non essere utilizzate dai beneficiari», il personale addestrato si guarda bene dall’osservare il principio di «non nuocere» ai migranti e i soggetti coinvolti si sottraggono al «monitoraggio», un’accusa rinnovata e ampliata nel caso dei «centri di trattenimento» inaccessibili a osservatori esterni e operatori umanitari.
L’autrice: i diritti umani non affrontati in maniera adeguata
Jakobsen, il membro della Corte responsabile del report, sottolinea che il nucleo delle critiche si era già formato ai tempi dei primi rilievi nel 2018. Sei anni dopo, è cambiato poco: «L’aspetto più preoccupante è che i fondi non sono ancora sufficientemente mirati o concentrati sulle priorità o sui bisogni più urgenti» fa notare, evidenziando almeno tre elementi di critica. Il primo è che «il Fondo per la migrazione è semplicemente troppo poco distribuito sul territorio, poiché finanzia una gamma troppo ampia di azioni nel campo dello sviluppo, degli aiuti umanitari e della sicurezza. In futuro, il Fondo dovrà concentrarsi maggiormente per evitare che la storia si ripeta». In seconda battuta, aggiunge Jakobsen, «i risultati dei progetti finanziati sono spesso sopravvalutati. Ad esempio, il team di audit ha visitato un laboratorio artigianale che era stato dichiarato completato, ma in realtà l’edificio non era affatto ultimato e quindi non era operativo». In terza battuta affiora l’attenzione blanda ai diritti umani, incluse le procedure standard per la raccolta di denunce su casi di abusi: «In particolare, la Commissione non dispone di procedure formali per segnalare, registrare e seguire le presunte violazioni dei diritti umani in relazione ai progetti finanziati dall’UE. I nostri revisori non possono quindi confermare che tutte le accuse siano state seguite»